Novantadue – Unione Sarda intervista a Claudio Fava marzo 2015

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  • Ultimo aggiornamento 7 Aprile 2017

Novantadue - Unione Sarda intervista a Claudio Fava marzo 2015

L'unione Sarda - 18 marzo 2015

Su il sipario - Claudio Fava racconta Falcone e Borsellino. Vent'anni fa
Noi crediamo ancora nella coerenza della giustizia italiana
I giorni passati all'Asinara dai due magistrati impegnati a scrivere le sentenze dei 474 imputati al maxiprocesso diventano una pièce. Da oggi al Massimo di Cagliari.

Debutta stasera, al Massimo di Cagliari alle 20.30, "Novantadue/ Falcone e Borsellino 20 anni dopo". Il lavoro, scritto da Claudio Fava e diretto da Marcello Cotugno, ricostruisce i giorni passati all'Asinara dai due magistrati impegnati a scrivere le sentenze che rinviavano a giudizio i quattrocentosettantaquattro imputati del maxiprocesso istruito al carcere dell'Ucciardone. Prodotto da BAM Teatro, lo spettacolo proposto dalla CeDac sarà in replica sino al 23 marzo. Nel cast, Filippo Dini, Giovanni Moschella e Fabrizio Ferracane. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano nati nello stesso quartiere, la Kalsa di Palermo e morirono lo stesso anno, il 1992, a distanza di pochi mesi. Falcone, in maggio, saltò in aria con la moglie Francesca Morvillo e la scorta, sulla strtada tra Punta Raisi e lo svincolo per Capaci. Guidava una Croma bianca, fatta a pezzi da 400 chili di tritolo. Paolo Borsellino morì a luglio, per un'altra carica di tritolo, mentre si recava a trovare sua madre. Medaglia d'oro al valor civile, per le due vittime della mafia.
Claudio Fava - giornalista, sceneggiatore e deputato - ha un tono amaro e calmo, nello spiegare la genesi di una messa in scena che ricostruisce un periodo "oscuro e terribile".

Disse Giovanni Falcone: "La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine". Aveva torto?
"Era un uomo di grande saggezza e buon senso. E non era un pessimista. Ogni percorso vitale ha un suo ciclo destinato a esaurirsi, perciò la civiltà del diritto prevarrà. Quando, con quanta fatica e dolore, non lo sappiamo. Ma non bisogna cedere alla rassegnazione. Né crearsi un alibi pensando che nulla cambierà, né adeguarsi passivamente, nella convinzione che gli scenari rimarranno invariati".

Per molto tempo, sul guardrail dell'autostrada tra Punta Raisi e Capaci, c'è stato un segno rosso. Servono a qualcosa, i simboli?
"Servono, purché non si deleghi a essi l'unica manifestazione di dissenso e di condanna. Troppi morti si sono tramutati in eroi. Bisogna dare risalto alla normalità delle loro condotte, alla normalità dei loro mestieri. Non bisogna considerarli eccezione".

Oggi i due magistrati hanno piazze, scuole, monumenti, aeroporti dedicati a loro. Onori postumi per sgravare le coscienze?
"È giusto far vivere il loro nome nei luoghi, il pericolo è che il ricordo di ciò che hanno fatto si esaurisca nella celebrazione. Bisogna credere nella qualità delle leggi e nella coerenza della giustizia. Ciascuno deve fare la propria parte, esercitare un'azione, farsi rinfrancare da quegli esempi dolorosi e potenti".

La memoria di quegli attentati, non gli unici ma tra i più sconvolgenti, sembra oggi essersi affievolita?
"In parte sì. La generazione attuale ne ha solo sentito parlare. Non sa molto di una strategia che voleva provocare una tensione emotiva. C'è stato un inabissamento della mafia che negli ultimi tempi ha scelto un basso profilo ma può alzare il tiro quando vuole. Il silenzio è provvisorio".

Come ha adattato sul palcoscenico la cronaca di una vicenda così tragica e complessa?
"È stato facile, la forma teatrale si presta bene a raccontare morte, vita e solitudine senza cadere nella agiografia. Si può scegliere un passaggio di quelle esistenze per dare corpo, respiro e gesto alle persone. I due avevano caratteri complementari: uno sobrio e controllato, l'altro più passionale. S'incontrarono e s'intesero, divenendo amici, perché condividevano la stessa idea di giustizia".

Alessandra Menesini

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