Novantadue – La Nuova Sardegna 20 marzo 2015

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  • Data di creazione 7 Aprile 2017
  • Ultimo aggiornamento 7 Aprile 2017

Novantadue - La Nuova Sardegna 20 marzo 2015

La Nuova Sardegna - 20 marzo 2015

Novantadue, l'anno di Falcone e Borsellino
Intervista con Claudio Fava, il giornalista-scrittore autore dell'opera in scena fino a domenica al Teatro Massimo di Cagliari.

"Il 1992 è una data di inizio, di un punto di riferimento che segna non solo le vite di chi c'era ma anche di chi è nato dopo, e che a quell'anno deve fare riferimento" spiega Claudio Fava - autore di "Novantadue/Falcone e Borsellino, venti anni dopo" in scena al Teatro Massimo sino a domenica, - che oggi insieme agli interpreti dello spettacolo Filippo Dini, Giovanni Moschella e Fabrizio Ferracane, incontrerà il pubblico alle 17.30 al Cinema Odissea. Per il giornalista e scrittore il 1992 rappresenta uno spartiacque, un prima e un dopo. "Non penso solo alla stagione delle stragi di mafia - sottolinea Fava - ma anche al crollo verticale della prima Repubblica in seguito all'inchiesta di Mani Pulite, alla perdita di candore di un Paese in cui qualcuno pensava di essere un semplice spettatore. In quell'anno ci accorgemmo che non c'erano spazi di neutralità, nessuno poteva sentirsi forestiero rispetto al progetto eversivo di Cosa Nostra nel suo attacco diretto allo Stato, e rispetto all'involuzione profonda della politica".
Nello spettacolo il dialogo fra Falcone e Borsellino inizia sette anni prima, nell'isola dell'Asinara, dove si ritirarono nell'agosto dell'85 per preparare l'istruttoria del Maxi Processo. "Mi piaceva costruire in questa pièce - racconta Fava - più che la progressione verso la morte, il racconto della vita, l'intensità di queste vite, la profonda amicizia che li legava. E la normalità di una quotidianità fatta di sentimenti che appartengono a tutti - dubbio, paura, passione, rabbia, solitudine. Per provare a restituire la dimensione della normalità, il modo in cui seppero affrontare ciò che accadde continuando a costruire fra loro questo sentimento di forte condivisione. Abbiamo in questi anni ricordato troppo la loro morte e abbiamo lasciato che sparisse la vita, le cose alte, profonde e "normali", naturali della loro vita. Perché non ci sono soltanto le inchieste, ma anche la condizione quotidiana dell'esistenza. Averli considerati martiri, averli consegnati ad una mitologia lontana da noi, è stato un modo per lavarsene le mani e considerarci estranei. Nello spettacolo, nel sentirci parte della loro storia, alla fine respiriamo qualcosa in più dal punto di vista dei sentimenti, dei comportamenti, dei pensieri, delle parole private, quotidiane, che forse sono le più vere".

Come ha trovato le parole per far dialogare Falcone e Borsellino?
"Con molta presunzione, facendo leva sull'unica cosa che davvero mi appartiene e che penso sia davvero il mio mestiere, che è la scrittura. Provando a interpretare pensieri, gesti, momenti di queste esistenze, restituendo loro fiato, azione, profondità. Intendo una presunzione necessaria dal punto di vista letterario, drammaturgico. In questo ti soccorre il fatto che racconti storie di cui hai dimestichezza, personaggi di cui in qualche modo conosci la fibra umana e non soltanto l'aspetto pubblico, ma quello più profondo e quotidiano".
"Il momento della pièce che considero fra in più intensi - dice Fava - non è un'orazione, ma una lettera che Borsellino scrive ad una professoressa giustificandosi di non essere potuto andare nella scuola come promesso. Questa lettera la sta scrivendo la domenica in cui poi viene ucciso, l'ho recuperata casualmente anni dopo, attraverso il fratello. C'è l'assoluta verità della sua voce, e l'assoluta normalità di un uomo che poche ore prima di consegnarsi alla morte, vuole spiegare perché ha fatto il giudice. Perché pensa di essere in debito con quel mestiere, pensa che i suo figli e i figli di tutti sarebbero stati più fortunati perché avrebbero avuto più strumenti, più consapevolezza per combattere la mafia. È una coma molto bella e non è un atto giudiziario, ma un segmento privato che perciò diventa il segno pubblico di quell'esistenza".

Nella lotto contro la mafia in quale sua parte si sente più utile, in quella di scrittore e sceneggiatore o in quella di parlamentare?
"So di dire una cosa di una certa gravità, ma secondo e nella scrittura. L'efficacia di una scrittura buona e non didascalica serve a questo Paese, per capire anche come aiutarci a sbarazzarci delle mafie. È una questione di resistenza civica e civile".

Di Roberta Sanna

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